sabato 21 febbraio 2015

Nude...ma solo per l'Arte!

Via Margutta, la via degli artisti (Roma)
Roma è stata per secoli la culla dell’arte. Chissà quanti modelli e modelle sono passati negli studi dei grandi pittori e scultori che hanno animato il panorama artistico di questa città. Per tanto tempo un elemento del folklore locale era rappresentato proprio dalle giovani donne che posavano per loro, talvolta per denaro, ma più spesso per partecipare alla riuscita di un capolavoro. Aderivano per amore dell’arte, sapendo e comprendendo l’alta missione che si celava nell’eccitamento del talento dell’artista.
Wilhelm Marstrand, Osteria romana, 1847
Le donne romane erano bellissime. “Tante sono le stelle in cielo, tante sono le belle donne di Roma”, lasciò scritto Théophile Gautier.  Egli pensava che occorressero busti rinforzati con stecche di ferro per tenere a freno certi seni. “Oltraggiosamente belle!”, esclamava. E Stendhal: “ Che cosa non darei per poter far comprendere che cosa sia l’aspetto impassibile d’una bella romana. Essa considera la faccia dell’uomo che la guarda ammirato, come voi guardereste di mattina una montagna. Ed è proprio questa impassibilità che rende poi così affascinante un minimo segno di interessamento da parte loro”.
Carl Bloch, Osteria romana,1866
B. Pinelli, Trasteverina
Fino a cent’anni fa pare che le trasteverine fossero riuscite a conservare un “tipo” proprio, un’ originalità di caratteri attraverso i secoli, malgrado le vicende e la varietà dei contatti. Tenacissime, per un istinto di boria retrospettiva, superbe nell’aspetto, negli usi e nei costumi, se la tiravano alla grande! Lo scultore Duprè, nuovo di Roma, per aver ronzato un po’ troppo intorno ad una fiera ragazza “con le trecce nere” se la vide venire addosso con lo spillone tolto dai capelli, dicendo: “A giovanotto, che ve puzza de campà?!” .
Comunque, nel nobile convincimento di essere parte determinante di un’opera d’arte, non poche dame del patriziato romano, e perfino alcune “altezze” non esitarono a posare completamente nude dinanzi gli artisti.
A. Canova, Paolina Borghese (1805-1808) , Galleria Borghese, Roma

A tutti è nota la “sovrana” disinvoltura con la quale Paolina Borghese, l’avvenente sorella di Napoleone, posò, svestita, dinanzi ad Antonio Canova. Avendole un’amica domandato, curiosamente: “Possibile?!...Completamente nuda?!”. “Oh! – rispose lei – ma…c’era anche la stufa!”. Si racconta poi, che un vecchio principe romano conservasse in una stanza riservata, lontano da occhi indiscreti, il ritratto della moglie “svestita” da Eva. Quella tela aveva una storia. Un artista bizzarro e un po’ malignetto, s’era preso il gusto di dipingere, sopra un bellissimo nudo femminile, la testa della principessa. Poi aveva esposto il ritratto in vetrina. Il principe, passando per caso, riconobbe la propria consorte, comprò il quadro e lo fece subito trasportare a palazzo.
Raffaello, La Fornarina (1518-1519), Galleria Nazionale d'Arte Antica, Palazzo Barberini (Roma)
Tra  le più celebri modelle romane vi fu senza ombra di dubbio la Fornarina, l’ispiratrice di Raffaello. Prevale tuttora la sua identificazione con Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere, che sarebbe stata in quegli anni la donna amata da Raffaello. Non è sicuramente documentabile, ma somiglianze nei lineamenti del volto, hanno accreditato l’ipotesi che l’artista abbia usato la stessa modella in varie opere, quali  “ La Velata”  e la “Madonna Sistina”.Si è ipotizzato che Raffaello e Margherita si fossero sposati segretamente e che lei, morto il marito, avesse per questo deciso di ritirarsi a vita monastica.
Caravaggio, Madonna dei Pellegrini (!604-1606)
Basilica di Sant'Agostino in Campo Marzio, Roma
E che dire della bella  “Lena” del Caravaggio?!. All’anagrafe Maddalena Antognetti, nota cortigiana dell’epoca. Lena, giovanissima, era stata l’amante prima del Cardinal Montalto, poi di monsignor Malchiorre Crescenzi e infine del Cardinal Peretti, nipote di Sisto V. Faceva parte di un gruppo di prostitute d’alto bordo. Fare di Lena la “Madonna dei Pellegrini” , nella chiesa di Sant’Agostino a Roma, era stata una mossa davvero rischiosa, dato che la giovane era un volto conosciutissimo in città. Il Baglioni racconta che non appena il quadro fu messo sul’altare “ne fu fatto dai preti e da’ i popolani estremo schiamazzo”. Il concilio di Trento aveva specificatamente bandito “tutte le lascivie di sfacciata bellezza nelle figure” . Un volto così noto, vieppiù di prostituta, costituiva un pericolo, specie quando si avevano molti nemici. Ma stiamo parlando del Caravaggio! Che infatti la utilizzò come modella sia per la “Madonna dei Palafrenieri” ( Galleria Borghese, Roma) che , forse, per la “Maddalena in estasi” (Collezione Privata, Roma).
Caravaggio, Madonna dei Palafrenieri (1605),
Galleria Borghese, Roma
Ma quello tra Lena e Caravaggio era un rapporto sessuale ?  Giambattista Passeri (1772) che scrive delle vite degli artisti di quel periodo pensava che non ci fosse niente di erotico. I fatti, secondo i registri giudiziari, erano questi: una sera d'estate del 1605, esattamente venerdì 29 luglio, un giovane notaio di nome Mariano Pasqualone si presentò al tribunale criminale mostrando una ferita fresca sul lato sinistro della testa «cum magna sanguinis effusione». Dichiarò che mentre passeggiava in piazza Navona: «son stato assassinato da Michelangelo da Caravaggio pittore. Mi sono sentito dare una botta in testa dalla banda di dietro, che io sono subbito cascato a terra et sono restato ferito in testa, che credo sia stato un colpo di spada». Non aveva visto l'aggressore, «ma io non ho da fare con altri che con detto Michelangelo, perché a queste sere passate havessimo parole sul Corso lui et io per causa d'una donna chiamata Lena che sta in piedi a piazza Navona, che è donna di Michelangelo. E di gratia vostra signoria mi spedischi presto acciò me possa medicare». Il nostro Mariano Pasqualone lavorava in uno degli uffici legali del cardinale vicario di Roma.
Caravaggio, Maddalena in estasi (1606), Collezione privata, Roma
Tra i suoi compiti c'era quello di consegnare gli ordini del tribunale che vietavano a persone coinvolte in relazioni scandalose di continuare a vedersi. Forse fu detto al Merisi di diffidare di chi conduceva una vita privata irregolare, ma Caravaggio reagì furiosamente. Un conto, però, era fare a botte con dei pittori per strada, un altro ferire un funzionario legale dello Stato ecclesiastico. Questa volta l'aveva combinata grossa. La cosa migliore era lasciare la città e aspettare che le acque si calmassero, aspettare che il suo protettore, il cardinal Del Monte, vedesse come limitare i danni. E fu questo che fece. Lena morì ancora prima di Caravaggio. L'anno dopo la fuga dell'artista da Roma, tornò a vivere con la madre e la sorella in via dei Greci, dove spirò nel 1610. Aveva solo ventotto' anni. 
"Ricordi autobiografici" di Adamo Tadolini

Un’altra  storia molto intrigante e meritevole di essere riportata è quella raccontata dallo scultore Adamo Tadolini, nei suoi "Ricordi autobiografici". Nato a Bologna, nel 1788, venne a Roma nel 1814 e presto si alloggiò nello studio del Canova, del quale divenne aiutante scrupoloso e fedele, tanto da meritare la considerazione e la stima del Maestro. La storia risale all’anno 1816, quando il Canova era all’apice della sua gloria, ed ha per protagonista una bellissima ragazza, di nome Rosina. Un racconto all’apparenza di poco conto, ma che ci consente uno sguardo furtivo su certi aspetti dell’ambiente artistico romano del tempo. Stiamo sul finire dell’inverno e Adamo Tadolini aveva cominciato a lavorare in uno studio offertogli dal Canova, all’Orto di Napoli, la stradina che collega via del Babbuino con via Margutta.  Il principe Hercolani, gentiluomo bolognese, gli aveva da  poco commissiona una statua di marmo, di qualsiasi soggetto. Il Tadolini abbozzò subito un gruppo di “Venere distesa che scherza con Amore”.
Venere e Adone, Adamo Tadolini
Poiché il bozzetto piacque molto al principe, lo scultore si accinse ad eseguirlo a grandezza naturale. Smanioso di vedere l’opera compiuta, a tutte le ore del giorno, senza farsi annunciare, il principe mecenate si presentava allo studio, per vedere come procedeva il lavoro. Una volta vi trovò la modella, che era bella, ma a suo giudizio di carnagione troppo bruna. Allora rivolgendosi all’artista, gli fece: “ Io conosco una giovane veramente perfetta. Se vi sembrasse adatta per la statua che mi fate, ve la manderei volentieri. Venite questa sera a pranzo da me e dopo vi condurrò a vederla”. Puntuale, lo scultore andò a pranzo dal principe che poi lo fece salire nella sua carrozza e lo portò in un ricco appartamento. Un servitore in livrea li annunciò e pochi minuti dopo furono ricevuti da due signore. Era inverno, abbiamo detto, e le ospiti e i visitatori si sedettero intorno al camino acceso. 
Adamo Tadolini, San Paolo, Piazza San Pietro
Il Tadolini guardava in silenzio, con occhio di artista,la donna più giovane; il principe parlava del più e del meno, galantemente. Dopo una breve conversazione, gli uomini si alzarono e si congedarono, senza fare riferimento alcuno alla statua. Ma, non appena di nuovo in carrozza, l’Hercolani domandò bruscamente al Tadolini: “Ebbene, non mi dite nulla? Che cosa ve ne pare di quella ragazza? Sarebbe buona per modella della vostra Venere?”. “La giovane è bellissima e di giuste proporzioni   - rispose lo scultore  -  ma bisogna vederla spogliata”.  “Domani ve la manderò e giudicherete” – concluse il principe. Il giorno dopo, nella tarda mattinata, una carrozza si fermò nella stradetta all’Orto di Napoli. Un servitore scese e bussò allo studio. Venne all’uscio lo stesso Tadolini, che riconobbe il cameriere della sera prima. Questi fece scendere dalla carrozza la giovane e domandò allo scultore a che ora dovesse tornare a riprenderla. “Per questa mattina basta un’ora o poco più” – rispose l’artista.  Nello studio, la giovane cominciò a togliersi lentamente l’abito di seta nera.

A. Canova, Le tre Grazie, Hermitage
Poi, dopo qualche difficoltà, si liberò anche di una leggera sottoveste e d’una fascetta che aveva per busto. Finalmente lasciò cadere anche due finissime camicie che portava una dentro l’altra. Spogliata, era stupenda. Così le pose cominciarono. Ma un giorno, inaspettatamente, arrivò il Canova, che era proprietario dello studio. La giovane che stava in posa, sentendo aprire la porta, balzò in piedi e di colpo si infilò la camicia. Entrato nella stanza, il maestro salutò pacatamente come soleva fare e non poté non restare ammirato dalle forme della giovane; ma prudentemente, e sempre da artista, le diede un’occhiata ed uscì. 
Adamo Tadolini, Re Davide, Colonna dell'Immacolata
Piazza di Spagna, Roma
La giovane si rimise in posa, e così rimase fin quando non venne la carrozza a riprenderla. Il giorno seguente, mentre pranzavano insieme ,come di consueto, il Canova domandò al Tadolini chi fosse quella bella ragazza.  “A quel poco che ho visto di collo e di spalle - disse – mi servirebbe per Le tre Grazie, che sto terminando in marmo per il principe di Beauharnais”. “Lo dirò al principe” – disse il Tadolini. E la sera stessa, infatti, si recò dall’Hercolani e gli riferì il desiderio del Canova. Il principe non mostrò alcuna difficoltà, soltanto pregò il Tadolini di volerlo dire lui stesso alla giovane, quando fosse nel suo studio. E così avvenne. Il Tadolini fece la proposta direttamente alla modella, e la bella donna gli rispose “E perché no?!”. Il lunedì, nella carrozza del principe, il Tadolini e la ragazza arrivarono allo studio del Canova, in via delle Colonnette, dove una lapide, postavi nel 1871, recita: “ Da questo studio la scultura uscì rinnovellata per opera di Antonio Canova”. Il Tadolini aprì la porta e introdusse la donna nella stanza. “Lei come si chiama?” – le domandò il Canova. “Rosina” – rispose. “Bene la prego di spogliarsi. 
Via dell'Orto di Napoli da Via Margutta
Quel giorno che la trovai all’Orto di Napoli non vidi che il collo e un poco di spalle”. Una proposta legittima, trattandosi di uno scultore. Ma la ragazza si rifiutò. Non era certo ad infastidirla la presenza del Tadolini, né quella dell’anziano e illustrissimo Canova, bensì quella del suo segretario, l’abate Missirini, che non comprese che era di troppo o forse non volle comprenderlo. Fatto sta che la Rosina, per la presenza di quell’estraneo, non artista, non volle assolutamente mostrare la bellezza delle sue forme. Ma il Canova insistette ancora nella sua richiesta, fin quando la bella Rosina non si decise a togliersi “la veste e la sottana, non la camicia, la quale anzi, calatale dalle spalle, essa riprese con le mani sul petto e non fu possibile rimuoverla da quell’azione”. “Ferma un momento! – gridò il Canova , e subito, in un impeto d’ entusiasmo, ne fece un appunto a matita su un foglio, che ancora oggi si ritrova tra le carte del museo di Possagno e può essere messo in rapporto con la “Venere” che il maestro scolpì, tra il 1818 ed il 1820, per sir Thoms Hope e per la famosa statua che ora è a Palazzo Pitti: “La Venere che esce dal bagno”.
A.Canova, Venere che esce dal bagno, Palazzo Pitti, Firenze

Quel giorno, molto seccato con il troppo fedele segretario, il Canova licenziò la ragazza dicendole: “Se può venga domani o qualsiasi altro giorno. Le prometto che non vi sarà nessuno”. Ma due giorni dopo un colpo di scena. Si seppe che gli sbirri del Bargello, erano piombati nel palazzetto di via Poli, avevano preso la povera Rosina e l’avevano trasportata in una carrozza chiusa, fino al “Buon Pastore” alla Lungara, dove si rinchiudevano le donne di malaffare. E ciò a quanto riportato nel suo racconto dal Tadolini “in seguito a ricorso di una certa persona che non occorre mentovare”, cioè di qualcuno a cui non faceva piacere che “ la immaginazione tranquilla e riposata” del Canova fosse turbata e scossa da entusiasmi per una bella ragazza.
Studio del Canova in Via delle Colonnette, Roma


Così la bella Rosina non fu più veduta né dal principe Hercolani, né dal Tadolini, che però, come commenta nel suo racconto, non ne aveva più bisogno giacché era ormai al termine della sua opera. Mentre  “il dispiacere che ebbe il Canova di non averla potuta vedere spogliata neppure una volta fu tale che ne fece al segretario una forte lagnanza perché non li aveva lasciati soli”. Ma che cosa ne fu della bella Rosina? Tranquilli, la romanesca avventura ebbe il più lieto dei finali. Un ricco mercante di campagna, prosegue il Tadolini, invaghitosi della bella Rosina, la trasse fuori da quel luogo infame e in venti giorni la sposò. Un finalino, dunque, in rosa, dove, se non proprio la virtù, almeno la bellezza venne giustamente premiata. 

Ristorante Canova Tadolini





Per chi volesse ritrovare le atmosfere appena descritte, nella Roma di oggi, consiglio una visita in uno dei locali più suggestivi della Capitale. Al civico 150 di Via del Babbuino si trova Il Ristorante-Museo "Canova Tadolini".Questo locale è stato l'atelier di Canova e del suo allievo Tadolini, qui sono state create molte grandi sculture dei due artisti. Un tempo era un ritrovo adatto per un aperitivo o un cocktail ma adesso si è trasformato in un vero e proprio ristorante aperto a pranzo e a cena. Gli ambienti, anche dopo il restauro, hanno mantenuto volutamente tutti i colori gli arredi e i materiali che già prima caratterizzavano questo luogo. Così adesso ti puoi sedere circondato da opere scultoree varie, anche accostate casualmente, proprio come quando qui il Canova lavorava alle sue opere.


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venerdì 20 febbraio 2015

Cosa nasconde lo "Spirito Divino" di Trastevere?!


Non tutti sanno che la comunità ebraica di Roma è la più antica d’Europa. Si hanno notizie di ebrei che abitavano in città già nel II sec. a.C. Come per i greci e i fenici, erano perlopiù mercanti o schiavi liberati. Il nucleo originario si accrebbe con l’arrivo dei prigionieri portati a Roma, dopo il 63 a.C, a seguito delle campagne di guerra condotte da Pompeo contro la Giudea. Quindi si può ben dire che gli Ebrei siano a Roma da prima del Papa!
Rilievo, Arco di Tito
I bassorilievi dell’Arco di Tito, che raffigurano il corteo trionfale dell’imperatore, con il candelabro a sette braccia (menorah) e gli arredi depredati dal Tempio, tramandano la memoria della conquista di Gerusalemme, avvenuta nel 70 d.C. e l’inizio della dispersione degli Ebrei. Una moltitudine di loro giunse a Roma, a più riprese, concentrandosi in alcune zone della città. Molti si stanziarono nell’antico rione di Trastevere, dove restano ancora  le tracce più antiche dell’insediamento della comunità , prima del suo trasferimento nel Ghetto. Intorno all’anno Mille, l’area antistante il Tevere, tra la Basilica di Santa Cecilia e la chiesa di San Francesco a Ripa, si qualificava come una vera e propria Giudecca, denominazione medievale dei quartieri abitati dagli ebrei in tante città italiane ed europee. Ne è testimonianza la stessa toponomastica trasteverina del tempo, con la rua Juadearum in prossimità di Santa Cecilia, la via de corte Judei e il pons judaeorum, il ponte Fabricio. Sappiamo che in quest’epoca a Trastevere furono costruite ben sette sinagoghe. Ma oggi ne rimane solo una. Dove?!




Si trova al civico 14 di Vicolo dell’Atleta, stradina dal fascino straordinario e di stampo ancora medievale. Si chiamava in origine Via delle Palme, forse proprio per la presenza di questi alberi, simboli della Giudea.  Il nome fu cambiato, in quello attuale, dopo il 1849, a seguito di un eccezionale ritrovamento archeologico. Nel sottosuolo fu infatti rinvenuta una bellissima scultura, rappresentante un atleta, in cui si è in seguito riconosciuta una copia marmorea, di età Claudia (I sec. d.C.), dell’ Apoxyòmenos di Lisippo, scultore e bronzista greco del IV sec. a.C. L’Apoxyòmenos , termine che in lingua greca designa  “colui che si sta detergendo”, era considerata la sua opera più famosa e rappresenta un atleta colto nell’atto di pulirsi dopo la gara.
Copia romana dell'Apoxyòmenos (I sec. d.C.), Musei vaticani
Gli atleti greci, infatti, si cospargevano il corpo di olio per rendere i muscoli più elastici e per proteggere la pelle dal sole e al termine della gara toglievano lo strato di unto, reso sporco anche dalla polvere e dal sudore, con un apposito raschiatoio, chiamato strigile. L’originale bronzeo, realizzato intorno al 320 a.C., è andato perduto, sappiamo però che abbelliva le Terme di Agrippa ( di fronte al Pantheon). L’imperatore Tiberio si era letteralmente invaghito di questo bronzo e Plinio il Vecchio ci racconta che se l’era portato in un cubicolo della propria abitazione sul Palatino, salvo poi doverlo restituire poco dopo per l’insistenza del popolo, che ad ogni sua apparizione glielo rinfacciava a gran voce. O tempora, o mores! 
Copia romana dell'Apoxyomenos di Lisippo, rinvenuto a Vicolo dell'Atleta (Musei Vaticani)
La copia ritrovata in Vicolo dell’Atleta è attualmente conservata presso i Musei Vaticani. Contestualmente fu rinvenuto un altro capolavoro dell’arte classica. Si tratta del celebre Cavallo di Bronzo, oggi conservato presso i Musei Capitolini, considerato un originale greco del V-IV sec. a.C.
Cavallo di Bronzo, V sec. a.C. Musei Capitolini
Ma torniamo al civico 14 di Vicolo dell’Atleta e alla più antica sinagoga attualmente rimasta a Roma. Le fonti riferiscono che fu fondata dal lessicografo Nathan ben Jechiel (1035-1106)  e andò distrutta a seguito di un grave incendio, il 28 agosto del 1268. L’edificio che si può vedere oggi presenta  una bellissima facciata medievale, realizzata  in mattoncini, sicuramente restaurata, ma che nulla ha perso del suo fascino originario.
Facciata antica sinagoga

Il primo piano, decorato da una loggia ad arcate sostenuta da  colonnine marmoree, termina in alto con una cornice ad archetti ciechi. Dalla strada non è possibile scorgerla, ma pare che la colonna centrale dell’arcata mostri ancora un’incisione a caratteri ebraici.



Se vi avvicinate alla porta di ingresso, che sia apre sul lato sinistro della facciata, sarete incuriositi dalla presenza di  un’insegna, per fortuna poco invadente, a tal punto che da lontano non riuscirete neppure a leggerla. Avvicinatevi, facendovi largo tra le decine di scooter normalmente parcheggiati nei pressi. 

Ora potete leggere:  “Spirito Divino”.  Questo è il nome dell’osteria attualmente ospitata al pianterreno dell’antica sinagoga. Direi che è pienamente rispettata la sacralità del luogo… Anche se lo “spirito” a cui si fa riferimento temo che non sia esattamente quello santo!
Nei sotterranei del ristorante, infatti, è stata allestita una ricca e preziosa cantina, i cui vini accompagnano le gustose portate della casa. Se chiedete ai gentili proprietari, senza neppure troppa insistenza, vi condurranno nelle  “segrete” ipogee.
Cantina del ristorante "Spirito Divino"
Qui, ad un livello ancora più basso dell’attuale cantina, scorre una vena d’acqua, accessibile tramite un pozzo. Piena di fascino l’ipotesi che proprio in questo contesto fosse collocato l’antico Mikweh, la vasca purificatrice, per il bagno rituale. Quanta storia nei sotterranei di Roma!





Vicolo dell'Atleta, Trastevere, Roma

martedì 10 febbraio 2015

Cecilia...una santa bella da Sindrome!

E’ che Trastevere è sempre Trastevere, non c’è niente da fa’! E’ l’unico rione dove si respira ancora un relitto di “romanità”. Lo percepisci da quelle belle frasi in romanesco che ogni tanto ti sfiorano le orecchie, da quell’odore di fritto che lusinga il tuo naso e che ti fa pregustare carciofi in pastella e fiori di zucca ripieni, da quelle insegne fuori dai locali, che hanno ancora il sapore delle “pasquinate”, con il loro tono ironico e graffiante. Una simpatia chiassosa e “caciarona”, a tratti un po’ amara e melanconica. Il romano è come la sua città, pieno di sfumature.


“Ho deciso di mettermi a dieta, ma ho perso solo tanto tempo!”, così qualcuno ha scritto con il gesso su una lavagna appesa all’esterno di una trattoria! Bèh - che dire?! - ti senti subito a casa! Attraverso vie e vicoli, piazzette che compaiono all’improvviso. Ecco ci sono. Riconosco laggiù lo slargo della strada e quel palazzetto medievale. Si quello deturpato da tutti quei tubi che sembrano delle ciminiere. Ogni volta è la stessa domanda: ma chi gli ha dato il permesso di “violentare” così quella facciata?! Vabbè, non roviniamoci la giornata. La mia destinazione è sul lato opposto della Piazza. Oggi il menù ha un'unica portata: Basilica di Santa Cecilia in Trastevere.



Devo dire, a onor del vero, che l’edificio che ho davanti non ha assolutamente l’aspetto di una chiesa, si direbbe piuttosto un palazzo, con il suo bel portale, sicuramente barocco. L’architrave di questa monumentale facciata riporta a caratteri cubitali il nome del committente, il cardinale Troiano Acquaviva, il cui stemma fa bella mostra di sé proprio sopra l’arco d’ingresso. Repetita iuvant! Come recita il Vangelo?! Che la tua mano destra non sappia quello che fa la sinistra?! Mah! Superato l’arco, si accede ad un delizioso cortile interno, una piccola oasi di pace e bellezza.
Ora ci sta anche meno antipatico l’involucro esterno, se il suo scopo  è , a quanto pare, quello di celare e proteggere questo angolo di paradiso. Da brava archeologa la mia attenzione è immediatamente attratta da un’iscrizione collocata alla destra del portico. I miei due anni di epigrafia romana saranno pur serviti a qualcosa.


Traduzione più semplice del previsto. E’ un cippo romano, del periodo di Vespasiano (I sec. d.C.), collocato in origine lungo il pomerio, il confine della città. Una targa ricorda che è stato ritrovato nelle vicinanze e qui posto nel 1900. Il cortile ha una forma rettangolare, al centro c’è una bella fontana, sovrastata da un grande vaso, proveniente di sicuro da qualche antica domus dei paragi. Questo spazio verde è racchiuso sui lati da due monasteri: quello di destra, abitato da suore francescane d’Egitto, ha in parte mantenuto l’aspetto medievale; quello di sinistra, abitato dalle benedettine, è stato ricostruito nel XVI secolo. Le ali dei due monasteri sono raccordate al portico, o nartèce, della chiesa, sostenuto da quattro colonne ioniche. Magnifica la decorazione dell’architrave, risalente al XII secolo. E’ un mosaico in pasta vitrea policroma, con decorazione floreale e animali, di gusto veramente raffinato. A destra della facciata barocca svetta il bel campanile romanico, anch’esso del XII secolo. Questa “contaminazione” di stili e di epoche non danneggia però l’insieme, anzi direi che la loro fusione risulta decisamente armoniosa.
Entro. Si passa per un vestibolo, con le volte affrescate che immette alla navata centrale della basilica. Un barocco “gentile”, per nulla ridondante e “aggressivo”. Delizioso quel tono crema con le rifiniture in oro, pare di stare alla reggia di Versailles! Ben poco rimane dell’originale basilica di Pasquale I (IX secolo), che doveva essere piuttosto rigorosa e semplice: grandi arcate, poste sopra le dodici colonne con basi ioniche e capitelli corinzi, che reggevano dei muri in mattoni. Sopra ciascuna arcata si aprivano delle finestre con arco a tutto sesto.
Ora le finestre, del tutto modificate, si aprono sopra i coretti muniti di grate. Dietro queste grate, nelle lunghe gallerie, ricavate sopra le navate laterali, le monache potevano seguire le cerimonie religiose. Ma laggiù, nell’abside dove termina la navata centrale, qualcosa di antico e lucente già mi attrae. Forse non tutto del prisco edificio è andato perduto. E sempre là, in fondo, una candida figura, distesa sotto l’altare, sembra chiamarmi. Vorrei cedere a quel canto di sirena ma sono costretta a rinviare l’incontro. Si sta facendo tardi, ed ho degli orari da rispettare. Cominciamo dagli scavi.
Già, perché nei sotterranei della basilica, si possono vedere resti di edifici di epoca romana. Entro in una stanzetta che si apre nel fondo della navata, a sinistra dell’ingresso. C’è una suora che mi accoglie con un sorriso gentile e disponibile. “Sorella, ho fatto un po’ tardi, oltre agli scavi vorrei assolutamente vedere anche il Giudizio Universale, si può?!  “Può provarci – mi risponde - a mezzogiorno cominciano a preparare per il pranzo, ma forse, se chiede…”. Mi piace questo Paese, è possibilista, non esiste niente di assoluto e definitivo, il tentativo di sovvertire un ordine costituito è comunque legittimo. Una speranza te la danno sempre!

Di corsa faccio il biglietto e scendo nei sotterranei. Solo a Roma può bastare una scala per portarti indietro di duemila anni! All’epoca dell’impero, le mura fatte costruire da Aureliano (III sec.) comprendevano anche il quartiere posto sulla riva destra del Tevere, Transtiberim, Trastevere. In tutta l’area sorgevano giardini e ville. La collocazione della zona in un’ansa del fiume, con l’ampia disponibilità di acqua che questo garantiva, consentiva lo svolgimento di molte attività artigianali. La Notitia Urbis, registro topografico compilato in base a documenti della prefettura al tempo di Costantino (III sec.), parla di mulini, bagni, campi e templi. La disponibilità di ampi spazi consentì uno sviluppo edilizio a carattere popolare, con la costruzione di numerosissime abitazioni. Proprio una di queste la tradizione indica come la casa in cui visse Cecilia e sulle cui fondamenta fu edificata la basilica.
Caratteristico dei primi tempi del Cristianesimo era mettere a disposizione dei fedeli, per il culto, alcuni locali delle dimore gentilizie (ecclesiae domesticae); questi primi luoghi di riunione dei fedeli erano denominati Tituli e si distingevano tra loro per il nome della famiglia che concedeva i locali. Le prime testimonianze di un Titulus Caeciliae si hanno già nei secoli V e VI. Gli scavi sotto la basilica non hanno evidenziato tracce di una precedente chiesa paleocristiana, ma solo testimonianze di abitazioni. In particolare sono stati riportati alla luce i resti di una domus repubblicana che, nella prima metà del II sec. d.C., momento di maggiore espansione demografica di Trastevere, fu inglobata in un’insula, un tipo di residenza popolare, a più piani.  


Scendo le scale e mi ritrovo in quello che doveva essere un atrio o un peristilio, a giudicare almeno dai resti di colonne addossate alla parete. Restano qua e la frammenti dei pavimenti della domus , decorati a mosaico (opus signinum), di una certa eleganza e raffinatezza. Molto particolare la ristrutturazione, di età augustea, di una stanza, dove furono costruite otto vasche circolari, con rivestimento interno in laterizi. Forse dei silos destinati alla conservazione del grano.
Continuando lungo il corridoio incontro una stanza dove sono conservati alcuni sarcofagi e vari frammenti architettonici, evidentemente recuperarti durante gli scavi. Da questa sorta di lapidario  passo in un ambiente che custodisce ancora i resti dell’atrio dell’insula.



Di grande suggestione un piccolo larario: una nicchia, illuminata, contenente una lastra con bassorilievo raffigurante Minerva, evidentemente la dea protettrice della casa. Ci sono poi i resti di  un impianto termale. E’ proprio qui che la tradizione colloca l’antico balneum, dove sarebbe avvenuto il martirio della santa. Alla fine di questo percorso si giunge alla cripta che conserva le urne con i resti dei martiri.
L’aspetto odierno, in stile neobizantino, risale agli inizi del Novecento. E mentre, con aria sognante, sto ancora appesa alle grate del cancello di questo ambiente, sfolgorante di argenti, marmi e smalti dai mille colori,  all’improvviso ricordo l’avvertimento della suora. Se iniziano a mangiare mi gioco uno dei cicli pittorici più straordinari di Roma.
Ripercorro a ritroso tutte le stanze. Passo svelto, quasi di corsa e dentro di me ripeto come pungolo: “E’ tardi, è tardi!”, come il Bianconiglio di “Alice nel Paese delle Meraviglie”. Risalgo le scale. “Arrivederci, sorella! Allora ci provo?!” Annuisce e allarga le braccia. “Provi. Appena esce, trova il campanello alla sua destra”. Ripasso davanti all’altare, uno sguardo ancora alla Santa :“Non preoccuparti, torno!” Sono fuori. L’odore di soffritto che viene da sopra mi fa pensare che sia già avviata la fase del pranzo. Suono al citofono. Devo dare il meglio di me per sperare di convincerli a farmi entrare. “Buongiorno. So che è tardi e che è già ora di pranzo, ma mi sono attardata un po’ troppo in basilica. Se potete fare un’eccezione, vengo da lontano…”. Dall’altra parte mi giunge un rassegnato “Va bene!” , che suona per me come un coro di angeli! Mi aprono. Entro. Una ragazza con in  braccio una bimba mi dice che devo pagare a lei. Fatto. Ora arriva una suora, piccina piccina e con un’andatura un po’ dondolante. Silenziosa mi fa cenno di seguirla. Che strana atmosfera, un po’ surreale. Ma vuoi vedere che a forza di rievocare il Bianconiglio… Entriamo in un ascensore. Cerco di fare un po’ di conversazione, scusandomi ancora per la visita fuori orario. La mia compagna di ascensione mi da poca retta, chissà quante ne avrà sentite di scuse come le mie. Usciamo dall’ascensore e saliamo ancora qualche gradino. E alla fine eccolo, il Giudizio Universale di Pietro Cavallini!

Ti lascia senza parole e senza fiato. Ora ci troviamo in quella che una volta era la controfacciata della chiesa. Nel Cinquecento venne creato un piano rialzato, per la costruzione del coro delle monache e l’affresco rimase nascosto dietro. Restò scoperta solo la figura della Vergine, che pare allontanasse, come per miracolo, qualsiasi mobile, ogni qual volta si tentasse di metterglielo davanti. L’ opera fu riscoperta solo agli inizi del Novecento e venne immediatamente sottoposta ad accurato restauro e procedimento conservativo.
Inizio a fare qualche foto ma vengo immediatamente redarguita dalla mia ospite. “Ma non vede che ci sono ovunque cartelli e segnalazioni che fanno divieto di fotografare?!”. “Mi scusi, sono così presa dalla bellezza dell’affresco che non riesco a vedere quello che c’è intorno”. La mia affermazione deve averla colpita. Il “cerbero” accenna un sorriso. “Sa, è per proteggerli”. Non è proprio così, penso tra me. Senza flash una foto è assolutamente innocua. Però ho capito di avere aperto una piccola breccia. Devo approfittarne. Faccio qualche domanda. Lei mi risponde e si scioglie un po’. Chiedo di andare al di là dei sedili del coro, per vedere ancora più da vicino quella meraviglia. Acconsente. Scatto, non vista, alcune foto. Oh, si sa, il fine giustifica i mezzi!

Ora riesco anche a vedere meglio la parte più bassa dell’affresco. Angeli con la tromba chiamano a raccolta i beati e i dannati, mentre al centro spicca la Croce con i simboli della passione. Alzo gli occhi, e incontro uno sguardo che mi folgora. E’ la figura del Cristo. Che sia arrabbiato per via delle foto?! E’ rappresentato in trono, nella mandorla e circondato da angeli.
La Madonna alla sua sinistra e Giovanni Battista a destra. Seguono gli apostoli, sei per parte, seduti su scranni come in un coro, con gli sguardi rivolti verso il Cristo. Chiude l’affresco, sul lato sinistro, un’Annunciazione, su quello opposto, ciò che rimane del Sogno di Giacobbe e dell’Inganno di Isacco.

E pensare che una volta gli affreschi del Cavallini decoravano tutta la chiesa. Dell’opera di questo grande e rivoluzionario artista, attivo tra la fine del Duecento e la prima metà del secolo successivo, restano ormai pochissime testimonianze e per questo ancora più preziose. Possiamo dire che con Pietro Cavallini e  Giotto abbia inizio la nuova arte occidentale, ormai europea. La pittura bizantina aveva creato delle icone da adorare, quindi delle figure umane astratte. Il Cavallini invece riscopre l’arte antica e con essa la visione prospettica ed il carattere dei volti. E poi c’è l’uso del chiaroscuro, che da solidità e spessore alle figure. Che colori incredibili ha questo affresco! I rossi e gli azzurri si alternano con le sfumature che addolciscono l’insieme. Le piume degli angeli hanno colori che forse esistono solo in cielo. E questi volti preannunciano già una bellezza che non è eresia artistica definire rinascimentale.
“Vogliamo andare?!” Poof! Di colpo la bolla in cui stavo fluttuando si rompe e torno sulla terra. “Certo, sorella!” . Dovrà anche mangiare, la poverina! E poi io ho un appuntamento, che rimando da tutta la mattinata. Scendo. Chiudo il portone dietro di me. Rientro in basilica. Questa volta il mio passo è spedito e punta verso l’altare. Man mano che mi avvicino la scorgo, in quella sua suggestiva posa, non casuale.
Era di nobile famiglia, Cecilia. Dopo le nozze dichiarò allo sposo la sua fede cristiana e lo persuase ad accettare il voto di castità da lei professato. Anche Valeriano ed il fratello Tiburzio si convertirono e furono battezzati da papa Urbano. Per la loro fede saranno uccisi, intorno all’anno 230 dell’era cristiana. Anche Cecilia fu condannata a morte. Sarebbe dovuta morire soffocata dai vapori nel calidario della sua casa.
Ma un angelo, recandole il necessario refrigerio, la salvò da quel supplizio. Condannata alla decapitazione, sopravvisse ai tre colpi inferti dal carnefice e poiché la legge vietava di infliggere un quarto colpo,  fu lasciata agonizzante per tre giorni sul pavimento della casa, prima che spirasse. Fu sepolta, assieme ai suoi parenti, nei pressi della via Appia, nel cimitero di Protestato. La leggenda vuole che, in sogno o durante una celebrazione in San Pietro,  Pasquale I (817-824) abbia avuto la visione della santa che gli rivelava il luogo della sua sepoltura. Il papa fece allora recuperare quel corpo per trasportarlo nella chiesa di S. Cecilia, sorta nel frattempo sul luogo del suo martirio e rese splendida l’antica costruzione.
Ma la storia non finisce qui. Nel 1599, il cardinale Sfodrati, nel corso di importanti restauri alla chiesa, fece riesumare il corpo della santa, per valutarne lo stato di conservazione. Questo fu rinvenuto, ancora in perfetto stato, in una cassa di cipresso, contenuta a sua volta entro un’urna di marmo “con la veste di seta intarsiata con fili d’oro, scalza, con un velo  intorno alli capelli, giacendo con la faccia rivolta in terra, con li segni del sangue e di tre ferite sul collo”.
Il corpo, esposto per un mese alla venerazione dei fedeli, venne poi sepolto nella cripta, all’interno di una sfarzosa cassa d’argento. Fu in questa occasione che venne commissionata a Stefano Maderno la celebre statua marmorea della santa, riprodotta nella medesima posizione in cui fu ritrovata: una posa naturale, come di chi sta dormendo profondamente, le braccia tese in avanti, le mani semiaperte che indicano simbolicamente il mistero della Trinità, la faccia rivolta a terra, i capelli sparsi e sul collo il segno delle ferite.
L’artista, sebbene molto giovane e di poca esperienza, seppe ricompensare il committente con un’opera di straordinaria bellezza. Il Maderno scelse per la scultura un unico blocco di marmo greco, proveniente dal monte Pario, la cui luminosità viene esaltata, per contrasto, dalla nicchia in marmo nero in cui è collocata.


Ed eccola qui, davanti a me. Un basso cancello ci divide. Non resisto. Devo andarle più vicino. E’ ora di pranzo e sicuramente non ci sarà nessuno a rimproverarmi. Apro il cancelletto. “Sono arrivata alla fine, hai visto?!”. E intanto guardo incantata le graziose e colorate lampade liberty che decorano il suo sepolcro.



Questa è la parte della basilica che conserva ancora i capolavori più antichi. Sopra la statua della santa si trova l’altare, coronato dal prezioso ciborio di Arnolfo di Cambio, della fine del Duecento e più in alto ancora il mosaico absidale, del sec. IX, voluto da Pasquale I.
In esso si ripropone lo schema a sette figure, presente a Roma sia in Santa Prassede che in Santa Maria in Domnica (detta della Navicella), entrambe ricostruite dallo stesso pontefice. Al centro il Cristo che riceve la corona dalla mano del Padre. All’estrema sinistra Pasquale I ( con il nimbo quadrato dei viventi e con in mano il modello della chiesa), presentato da S. Cecilia che gli tiene una mano sulla spalla. All’estrema destra S. Valeriano e S. Agata con le mani coperte in segno di umiltà; S. Valeriano è presente in quanto martire e sposo di S. Cecilia, mentre S. Agata ricorda il monastero a lei dedicato, sorto vicino alla basilica. Nell’abside ci sono dei lavori in corso.
C’è una scala usata per accedere ai ponteggi. Paola, non si fa! E mentre lo dico già salgo i pioli, per ammirare più da presso uno dei mosaici più antichi e preziosi di Roma. Per i divieti non rispettati passerò per uno di quei “santi” portali che ti assicurano l’indulgenza plenaria. A Roma ce n’è un’infinità! Prima di uscire torno per un saluto a Cecilia. Fuori c’è un sole splendido.
Il cortile  ora è anche più bello, c'è una luce ideale. Scatto qualche foto. Mi siedo sul bordo della fontana, per un ultimo sguardo. Cosa avrebbe detto Stendhal?! “Uscendo da Santa Cecilia avrete un battito del cuore, la vita sarà inaridita, camminerete temendo di cadere”. Non v’è dubbio! Ho la sindrome!